Minori fuori famiglia nelle comunità educative, un business da un miliardo. Ma se fossero tutti affidi?

L’infanzia italiana è stata tradita. È la dichiarazione di un articolo apparso sul quotidiano Il Secolo XIX di martedì 10 luglio: il pezzo denuncia un giro d’affari che in Italia verrebbe lucrato sui contributi emessi a favore delle comunità educative, i centri nei quali si trovano ospiti 22mila minori fuori famiglia. Il business che l’articolo denuncia varrebbe un miliardo: anziché adoperare al meglio i contributi, che vanno dai 70 ai 120 euro al giorno per singolo ospite, gli enti e le associazioni che le ricevono ci lucrerebbero sopra.

Questo è solo uno degli innumerevoli sprechi commessi in Italia a danno dell’infanzia in difficoltà. La denuncia de Il Secolo XIX, infatti, dà atto di un fallimento tutto italiano: al posto delle comunità educative devono esserci, infatti, le famiglie affidatarie.

L’affido è da considerare per legge prioritario a ogni altro intervento (legge 149/2001). Inoltre è assai meno costoso delle comunità educative. Il contributo pubblico che in media recepisce una famiglia affidataria – sono cifre variabili in base alle disponibilità economiche delle amministrazioni comunali e alle ore durante le quali il minore vive in affido – è di circa 300-400 euro al mese. Il Comune di Milano ad esempio elargisce un contributo ordinario agli affidi extrafamiliari full-time pari a un massimale di 450 euro al mese. Ed è uno dei più elevati della Provincia milanese, dove i contributi si aggirano mediamente sui 200 euro. Il contributo del Comune di Roma, per gli affidi della stessa tipologia, arriva a un massimale di 500 euro.

Se i minori allontanati dalla famiglia fossero dati in affido, come la legge prevede, si produrrebbe un enorme risparmio attestato tra l’80 e il 90%.

Il valido strumento dell’affido non decolla, anzi fallisce, perché si trova in mano al settore pubblico. «La causa del fallimento risiede nelle limitatissime risorse economiche e umane messe a disposizione degli operatori pubblici – dichiara Cristina Riccardi, membro del consiglio direttivo di Ai.Bi. con delega all’affido -. Di contro aumentano i minori in difficoltà familiari e viene deciso di mandarli nelle comunità educative. Intanto le famiglie che di cuore pensano di essere risorse per un affido vengono abbandonate dai servizi sociali, che non riuscirebbero a seguirle».

Chi, meglio di altre famiglie, può riuscire ad aiutare la famiglia affidataria? È questa la provocazione che viene dal settore del privato sociale (associazioni familiari non-profit) affinché sia maggiormente coinvolto nella gestione dell’affido. Lo spiega Cristina Riccardi: «Molti servizi sociali delegano con protocolli d’intesa parte della gestione dell’affido familiare al non-profit: perché non delegare anche il resto della gestione? Il privato sociale ha la possibilità di reperire risorse meglio del settore pubblico, attraverso la partecipazione a bandi di concorso e con l’accesso a fondi privati

La posizione di priorità dell’affido è in grave crisi e urge ripristinarla. Le cifre incalzano (22mila minori fuori famiglia, risorse irreperibili e altissime percentuali di denaro pubblico sprecato); la tendenza a riempire di minori le comunità educative appare sempre più una premessa alla riapertura degli orfanotrofi. Infatti, ed è opinione diffusa tra gli operatori del settore, a causa della penuria di fondi i vecchi orfanotrofi italiani, dichiarati decaduti per legge, non hanno mai realizzato la conversione in comunità educative prevista dal legislatore: il ripristino dell’affido nella via di un maggior coinvolgimento del privato sociale nella gestione è la sola garanzia per archiviarne per sempre il ricordo.